Forse non tutti sanno che il famosissimo brand di moda, il re delle maison italiane, nasce proprio a Firenze. Si tratta niente di meno che di Gucci. Nel 1921 il fiorentino Guccio Gucci fonda a Firenze, all’età di quarant’anni, l’azienda che riprende il suo nome e produce articoli di pelletteria.

Questo suo traguardo arriva dopo una gioventù passata a viaggiare e lavorare in Europa, soprattutto a Parigi e a Londra dove lavora per anni nell’Hotel Savoy in cui passa le giornate a contatto con un’Inghilterra facoltosa che sfoggia valigie, borsoni da viaggio, articoli per l’equitazione. 

Questo segnerà per sempre il suo gusto e il suo stile. Risultato del mix perfetto tra nobiltà inglese, manifattura italiana, e pelletteria fiorentina. 

Con questo bagaglio, Guccio torna nella sua città natale e fonda, in via della Vigna Nuova, quella che sarebbe diventata una delle maison di moda italiana più influenti in assoluto, ancora oggi, dopo un secolo esatto. 

Il suo successo parte proprio dall’esperienza londinese, Gucci infatti diventa famoso a Firenze e poi su scala nazionale, con i suoi simboli iconici ispirati al mondo dell’ippica: la miniatura del morso da cavallo, costituita da un doppio anello congiunto da una barretta, e il nastro a trama verde-rosso-verde che riprende il tradizionale sottopancia delle selle. 

A metà degli anni ’30 apre il primo negozio Gucci sulla 58° strada a New York da cui il marchio decolla verso il successo globale: star come Audrey Hepburn e Jackie Kennedy, e divi di Hollywood, vestono e sfoggiano Gucci. Il suo fascino non smetterà più di attrarre il mondo dello spettacolo e ad essere un’icona di riferimento per la moda.

Nel 2018, il direttore artistico di Gucci, Alessandro Michele, firma l’apertura del museo di Gucci a Firenze, il Gucci Garden, all’interno dello storico Palazzo della Mercanzia di Firenze. Lo spazio ospita una boutique con articoli unici, il ristorante Gucci Osteria da Massimo Bottura, chef premiato con tre stelle Michelin, e l’area espositiva Gucci Garden Galleria curata dal critico Maria Luisa Frisa.

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